«La Sekoma di Montecalvo Irpino prima Banca del civico Monte Frumentario»

Parte quinta

Sottrattasi alle pretese baronali, la collettività ritiene maturi i tempi per un passo di avanguardia che associ la crescita civile del paese a scelte economiche che potremmo definire, oggi, modernissime: il pubblico parlamento civico, riunito in numero di cinquantasette decurioni, decide, all’unanimità, di vendere la casa del pane. La decisione viene assunta in un momento di crescita demografica. Nel 1532 il paese contava 460 fuochi (nuclei familiari composti mediamente da 7-8 persone), saliti a 556

nel 1545 e a 650 nel 1561. Stabile rimase la popolazione fino al 1585 allorché i fuochi erano 656, mentre notevolmente più alta risulta essere nel 1595, quando, nove anni dopo la vendita, è di 734 fuochi. Vale a dire che nello spazio di sessantatré anni Montecalvo era passato da circa 3.250 abitanti ad una popolazione di oltre 5.000 unità che lo collocava al quarto posto tra i centri maggiormente popolati della provincia.

In questa graduatoria, anno 1595, Avellino occupava il quattordicesimo posto con soli 518 fuochi, mentre il capoluogo Montefusco non è incluso nei primi venti.

Per dare maggiormente l’idea della notevole popolosità di Montecalvo basti notare che nel 1585 i comuni limitrofi di Buonalbergo e Casalbore contavano, rispettivamente, 220 e 182 fuochi.

È in questo situazione demografico che

«L’UNIVERSITÀ DELLA TERRA DI MONTECALVO», così recita testualmente il documento (vedi parte quarta), «ACCIÒ NON MANCHI PANE, HA CONCLUSO PER PUBBLICO PARLAMENTO, NEMINE DISCREPANTE, DE VENDERE LA CASA DEL PANE COL PATTO CHE NESCIUNO ALTRO FACCI PANE AD VENDERE ECCETTO QUELLO CHE PIGLIERÀ IL PARTITO COL DARLI QUINDICI GRANA PER TUMMULO, ET SUBASTATO DETTO PARTITO SE È LIBERATO AL PIÙ OFFERENTE PER DUCATI CENTO PER IL PRESENTE ANNO DA PAGARSENO ALL’UNIVERSITÀ PREDETTA PER DETTO PARTITARIO LA QUALE UNIVERSITÀ HA PROMESSO DE SPEDIRE IL REGIO DECRETO ET ASSENSO».

Mentre rileviamo la valenza altamente simbolica della definizione «CASA DEL PANE» con la quale il consesso civico definisce il forno comunale con tutti i diritti sociali che ne derivano, non senza sorpresa apprendiamo che nel 1586 nasce, a Montecalvo, una sorta di privatizzazione del pane.

È in questo quadro socio-economico che si inserisce la fondazione civica del monte frumentario, resosi indispensabile allo scopo di prevenire disastrose carestie potenzialmente provocate dalla mancanza delle sementi cerealicole.

nel 1585 in Ariano, che con i suoi 1.890 fuochi, senza contarne altri 30 di famiglie albanesi, era saldamente al primo posto nella graduatoria dei centri maggiormente abitati del principato ulteriore, era nato un monte di pietà.

Nel 1622 papa Gregorio xv sopprime l’appalto del pane nella Benevento pontificia concedendo in perpetuo alla città «di affittare la panettaria ed i forni mediante la composizione di dodecemila scudi alla camera apostolica».

ciò dimostra che ancora nel xvii secolo la materia dei forni e dei mulini era prerogativa del potere centrale, la santa sede nel caso beneventano, e che davvero singolare rimaneva, nel campo, la situazione montecalvese che continuava ad essere gestita dai cittadini.

Ancora più luce su tale concetto, getta un documento beneventano del primo marzo 1663.

Si tratta di un crudo ordine emanato dal monsignor governatore della città:

«che nessuno ardisca far pane casareccio senza bollettino di Giuseppe Vertuccio, esattore destinato dall’appaltatore degli emolumenti del pan casareccio nuovamente imposti dal vescovo d’Ascoli visitatore apostolico».

La terribile peste che tra la primavera e l’estate del 1656 si abbatté violenta sul regno di Napoli, per rimanervi fino alla fine dell’anno nella capitale e fin quasi al 1658 nel resto del regno, determinò una delle più drastiche riduzioni demografiche mai registratesi nella storia dell’Italia meridionale.

nella sola Napoli le vittime furono centocinquantamila su una popolazione di quattrocentomila abitanti.

terrificanti le descrizioni di quei giorni.

così, parlando della Napoli appestata, racconta Carlo botta nella sua «storia d’Italia»:

«[…] l’aspetto di Napoli era ogn’ora più spaventevole. gli ospedali pieni, non più atti ad albergare gli infetti; tanto strabocchevolmente ne era cresciuto il numero!

morivano alla rinfusa sulle porte delle case, su per le scale, per le contrade.

Narrano che nel più gran fondo della peste morissero da otto in diecimila persone al giorno.

Nissuno la peste risparimiava: medici, chirurgi, sacerdoti, servienti, tutti perivano.

Di becchini più non se ne trovava, morti quasi tutti.

I cadaveri imputridivano là dov’eran morti, le confessioni ad alta voce si facevano, il sacramento si portava senza pompa, il viatico s’amministrava sulla punta di una mazza.

Un fetore insopportabile usciva dalle case a cagione dei cadaveri non levati e putrefatti.

In tal modo fomite infausto ad infausto fomite si aggiungeva […] vedevasi ad ogni passo con spettacolo orribile strascinarsi per le vie con graffi umani cadaveri inverso le carrette, dalle quali erano ricolti, e non di rado, con orrenda confusione si strascinavano semivivi con morti.

A mucchi anzi a monti si portavano i cadaveri alle grotte del monte di Lautrec, e ne furono piene, dove poi una chiesa fu fondata sotto il titolo di santa Maria delle lagrime […]

Le province del regno, tranne Calabria ultra e terra d’Otranto, appena lambite, furono colpite con un’altissima percentuale di mortalità».

Al di là di talune cronache che, forse esageratamente, davano per desolate tutte le terre del regno, è pur vero che i dati circa il numero dei morti sono raccapriccianti oscillando, in una forbice ragionevolmente corretta, tra le quattrocentomila e le novecentomila unità, escludendo dal numero le vittime della capitale.

Il principato ulteriore, con oltre il novanta per cento dei comuni interessati al morbo, fu tra le province più colpite.

Il xvii secolo, che già nelle prime decadi, in linea con quanto accadeva in tutta Europa, aveva registrato in provincia una diminuzione nel numero degli abitanti di circa il 9% vide, tra il 1648 e il 1669, un crollo medio del 40,25 per cento.

Nello Stesso Periodo Montecalvo Registrò Una Perdita Del 57,08% Della Sua Popolazione.

A causa della peste furono abbandonate le terre di Corsano e Pietrapicciola, due realtà di primissima importanza nella resa economica della contea montecalvese.

Similmente i territori seminabili di Montecalvo, come quelli dell’intera valle del Miscano, rimasero incolti e senza padrone tanto che dalle altre province del regno, e da terra di bari in particolare, prese il via una massiccia immigrazione che durò per tutto il resto del milleseicento fino alle prime due decadi del xviii secolo.

 

CONTINUA

FONTE

Giovanni Bosco Maria Cavalletti

 

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