L'Olio extravergine d'oliva Irpinia - Colline dell'Ufita DOP ha caratteristiche aromatiche e gustative peculiari, conferite dal microclima, dal terreno e dalle tecniche di coltivazione tramandate, oltre che dalla varietà di oliva Ravece, particolarmente adatta alla coltivazione nel territorio irpino grazie alla capacità di resistere alle gelate e alle nevicate invernali e primaverili.L'Olio extravergine d'oliva Irpinia - Colline dell'Ufita DOP ha radici antiche, che fanno risalire la coltivazione dell'olivo in quest'area già ai tempi dei Romani. Citazioni della Ravece, la principale varietà di oliva utilizzata per la produzione, sono rintracciabili a partire dal XVI secolo in diversi documenti, come ad esempio nell'opera Platea Urbis et foranea del Vescovo Diomede Carafa del 1517 o in uno scritto successivo del Vescovo Donato de Laurentiis, databile al 1580. La coltivazione della varietà Ravece conobbe un ulteriore sviluppo nel XIX secolo, come testimonia Nicola Flammia nella sua opera Storia della Città di Ariano del 1893.L'olio extravergine d'oliva è un alimento facilmente deperibile che necessita di una corretta conservazione onde evitare l'alterazione delle sue caratteristiche organolettiche.

È perciò consigliabile la conservazione in ambienti freschi, al riparo dalla luce, ad una temperatura compresa fra 14 e 18°C, lontano da fonti di calore e da prodotti che emanino particolari odori. È inoltre consigliabile consumarlo entro quattro - sei mesi dalla spremitura, per gustarlo nel periodo di massima espressione del suo sapore. L'Olio extravergine d'oliva Irpinia - Colline dell'Ufita DOP si abbina bene a una varietà di portate sia a base di carne che di verdure, da carni grigliate, a zuppe e minestroni, a verdure lesse e grigliate, comprese le insalate e la classica bruschetta.

 

L’olio nella storia

All'apogeo della civiltà romana l'olivicoltura era una delle branche più sviluppate dell'agricoltura. Per spremere le olive erano utilizzati dei contenitori di pietra, sui quali i frutti deposti venivano pestati con mazze, bastoni o appositi utensili. I "negotiatores oleari", riuniti in collegi di importatori, erano i soli commercianti abilitati a trattare l'"oro verde" Le contrattazioni delle partite avvenivano nella "arca olearia", una vera e propria borsa specializzata. Gli autori latini che trattano l'agricoltura sono prodighi di consigli su come produrre l'olio. Nulla è lascito al caso: dalle varietà più adatte alla potatura, ai sistemi di raccolta, fino alle tecniche di frangitura. Plinio e Columella, per citare solo alcune fonti, censiscono dieci varietà diverse di olivi, e l'olio viene classificato in cinque categorie: -"Ex albis ulivis" l'olio più pregiato ottenuto da olive verde chiaro; -"Viride" generato da frutti che stanno annerendosi; -"Maturum" frutto di olive mature; -"Caducum" prodotto da frutti raccolti per terra; -"Cibarium" spremuto da olive bacate e destinato agli schiavi. Erano particolarmente rinomati l’olio verde di Venafro, come attestano Marrone, Plinio, Orazio e Stradone, e quello della Liburnia in Istria; pessimo era considerato l’olio africano che veniva usato esclusivamente per l’illuminazione. Non mancavano allora, come oggi, le contraffazioni, se dobbiamo credere ad una ricetta di Apicio che insegnava a contraffare l’olio della Liburnia utilizzando un prodotto spagnolo. Essendo poco raffinato e dato che non si adottavano trattamenti particolari atti a conservarlo, l’olio diveniva rancido molto rapidamente; l’unica soluzione era dunque salarlo. Per questo motivo si consigliava anche di conservare il più a lungo possibile le olive, in maniera da poter fare, sul momento, olio fresco da offrire nelle oliere ai convitati in ogni periodo dell’anno. Si rendeva quindi necessario cogliere le olive quando erano ancora verdi sull’albero e riporle sott’olio. In epoca imperiale le olive si servivano in tutte le cene, anche in quelle più importanti: come diceva Marziale, esse costituivano sia l’inizio che la fine del pasto, venivano cioè, sia portate come antipasti, sia offerte quando, finito di mangiare, ci si intratteneva a bere. Solitamente erano conservate in salamoia, ben coperte dal liquido, fino al momento di usarle, poi si scolavano e si snocciolavano tritandole con vari aromi e miele. Le olive bianche venivano anche marinate in aceto e, condite in questo modo, erano pronte all’uso. Inoltre, con le olive più pregiate e più grosse, si facevano ottime conserve che duravano tutto l’anno e fornivano un nutriente ed economico companatico. Altre volte, più semplicemente, si mettevano le olive sotto sale con bacche di lentisco e con semi di finocchio selvatico. L'olio di qualità era costoso: Plinio ricorda che il cavolo non era un piatto economico perché doveva essere condito con olio. Virgilio, dal canto suo, suggerendo una ricetta di agliata, consigliava l'uso di tanto aglio, tanto aceto, ma solo "poche gocce di olio". Questo liquido assunse un ruolo fondamentale per la tavola e la cultura dell'epoca imperiale, tanto che Giulio Cesare costrinse le province vicine dell'impero a consegnare alla città molti litri di olio come tributo annuale. Il frutto dell'ulivo godeva di una tale considerazione che, in una civiltà basata su una rigida struttura militare e sul reclutamento obbligatorio, i cittadini che piantavano almeno un iugero (circa 2.500 metri quadri) di ulivi venivano dispensati dalla leva. I primi sintomi della crisi di tanto splendore oleario si avvertirono nel III sec. Il progressivo abbandono delle campagne alla cura degli schiavi, e le continue elargizioni degli imperatori, svuotarono le riserve di olio italico; la produzione nella nostra penisola diminuì e Roma anche per il suo consumo interno inizio ad attingere alle sue province spagnole e africane. La caduta dell'impero romano e le invasioni barbariche interruppero i contatti commerciali, facendo decadere l'olio da pianta sacra a specie rustica poco significativa.Dal sito: www.taccuinistorici.it

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