Le dittature serrano i cuori

La notte dell’apocalisse: Firenze 1925, la caccia ai massoni e il sacrificio di Gustavo Console, irpino dimenticato

«Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro», ammoniva Luis Sepúlveda. E, a giudicare dall'oblio che avvolge certi eventi del nostro passato, sembra che l’Italia stia perdendo entrambi: la memoria e il futuro. Un esempio emblematico è la notte tra il 3 e il 4 ottobre 1925, che Vasco Pratolini definirà “la notte dell’Apocalisse”. A distanza di un secolo, restano poche tracce nel sentire collettivo di quella feroce caccia all’uomo che si abbatté, in particolare, sui massoni fiorentini. Strade, lapidi e qualche aula scolastica ne custodiscono ancora i nomi, ma l’eco si è affievolita, come se il dolore e il coraggio potessero dissolversi nel tempo.

A riportare luce su quei fatti oscuri è oggi Stefano Bisi, giornalista e già Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, con il libro Le dittature serrano i cuori (Betti/Atena 1899, 12 euro), un agile saggio che intreccia ricostruzione storica e dovere civile. Il titolo è tratto da un’epigrafe scolpita sulla tomba di una delle vittime, Giovanni Becciolini, primo martire di quella lunga notte.

Una “caccia al massone”

È proprio da Becciolini, 26 anni, socialista, pacifista, massone e collaboratore del giornale clandestino antifascista Non Mollare, che parte il racconto. Rapito, seviziato, ucciso e lasciato agonizzante in strada: così muore per mano delle squadracce fasciste. La sua colpa? Aderire a ideali di libertà e fratellanza. Con lui cadranno anche Gustavo Console, brillante avvocato originario di Montecalvo Irpino, e Gaetano Pilati, imprenditore socialista bolognese ed ex deputato mutilato nella Grande Guerra.

Quei giorni segnano l’apice di una lunga escalation persecutoria. Mussolini, ostile alla massoneria sin dagli albori del suo potere (forse per essere stato rifiutato da essa, come suggerisce una storiografia oggi difficile da verificare per via di documenti scomparsi o distrutti), decide di estirparla con ogni mezzo. E sebbene tra le sue fila si annoverassero anche fascisti come Balbo e De Bono, la propaganda del regime non ammetteva ambiguità.

Il fascismo contro la libertà di pensiero

Già nel 1921, il primo congresso del Partito nazionale fascista aveva sancito l’incompatibilità con la massoneria, descritta come “nefasta” perché pacifista, cosmopolita, democratica. Nel 1925, la persecuzione assume tratti sistemici: il 19 maggio viene approvata la legge che di fatto scioglie le logge. Lo stesso Antonio Gramsci, intervenendo in Parlamento, denuncia la deriva: «Chi è contro la massoneria è contro il liberalismo e la tradizione politica della borghesia italiana». Mussolini, sprezzante, lo zittisce: «Le logge le abbiamo bruciate prima ancora della legge».

Un sarcasmo macabro, che trova eco nella stampa del tempo. Il 26 settembre, il periodico Battaglie fasciste incita esplicitamente a colpire i massoni «nelle loro persone, nei beni, nei loro interessi». Il 3 ottobre, rincara: «La massoneria deve essere distrutta con ogni mezzo, dal manganello alla revolverata». È il segnale. Le camicie nere si scatenano.

Firenze in fiamme

Il bersaglio principale è Firenze, città dalla radicata tradizione massonica. Sotto la guida del famigerato Amedeo Tamburini, violento picchiatore già condannato per gravi reati e poi divenuto console della Milizia e in seguito prefetto ad Avellino (1936–1939), i fascisti passano all’azione.

Tra le vittime di quella notte di terrore, Gustavo Console, 37 anni, avvocato civilista, corrispondente dell’Avanti!, trasferitosi a Firenze dopo la guerra. Era a cena con alcuni “fratelli” quando la squadraccia si presenta al cancello del suo villino. Riuscirà temporaneamente a farli desistere, ma torneranno. Lo troveranno e lo frederanno nella camera dei suoi figli, che aveva provveduto ad allontanare. La moglie lo rinverrà esanime tra i due lettini. Oggi una lapide ricorda il suo sacrificio: “Ardente difensore della libertà”.

Quella stessa notte cade anche Gaetano Pilati, colpito a letto davanti alla moglie e al figlio. Morirà dopo giorni di agonia. Prima di spirare pronuncerà parole indimenticabili: «Gli austriaci mi mutilarono, gli italiani mi hanno ucciso». Sua moglie Amedea, nonostante le intimidazioni, testimonierà al processo: tutti assolti. Per il suo coraggio le sarà conferita, nel 1992, la medaglia d’oro al valor civile.

Altre quattro vittime, operai, comparvero nella camera mortuaria: mai identificati, né onorati.

Console: l’irpino dimenticato

Grazie all’impegno del commendator Antonio Di Florio e del tenente colonnello Mario Corcetto, è stato possibile ricostruire con precisione la figura di Gustavo Console, originario di Montecalvo Irpino. Nato nel 1888, proveniva da una famiglia imparentata con i Principi del luogo. Dopo la guerra si stabilì a Firenze, dove ottenne importanti incarichi professionali e politici (fu anche deputato provinciale). Ogni estate tornava in Irpinia con i suoi figli. Il suo nome, per lungo tempo, è stato confuso e dimenticato. Alcuni lo credevano addirittura un funzionario dell’OVRA: un tragico errore di memoria.

Una lezione per il presente

Bisi conclude il suo libro con parole incise sulla lapide di Becciolini:
“Ucciso nell’adempimento di un alto dovere di fraterna solidarietà in un triste ritorno di oscura barbarie (…) ammonisce i viventi che le dittature serrano i cuori ad ogni nobile sentimento e che solo nella libertà è la certezza nel divenire delle genti.”

Rievocare storie come quella di Console, Becciolini, Pilati e degli altri senza nome, non è solo esercizio di memoria. È scelta morale, responsabilità civile, dovere democratico. Oggi più che mai.

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